Giuseppe Gioachino Belli

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Nacque nel 1791 nella famiglia benestante di Lucia Mazio e di Gaudenzio Belli, che ebbe altri tre figli: uno morto ancora in fasce, Carlo, morto a 18 anni, e Flaminia, che si fece suora nel 1827. I Belli lasciarono Roma nel 1798 quando i francesi occuparono la città, rifugiandosi a Napoli. Ristabilito il potere pontificio, tornarono a Roma e nel 1800 si stabilirono a Civitavecchia, dove Gaudenzio Belli aveva ottenuto un impiego ben retribuito al porto della città. Morì però in un'epidemia di colera nel 1802, lasciando in gravi difficoltà economiche la famiglia che ritornò a Roma stabilendosi in una casa di via del Corso.

La madre si risposò nel 1806 ma morì l'anno dopo, e dei tre figli si presero cura gli zii paterni. Giuseppe Gioachino dovette interrompere gli studi per impiegarsi in brevi e mal retribuiti lavori di computista, e impartendo qualche lezione privata. Ottenne anche salario e alloggio nel 1812 presso il principe Stanislao Poniatowsky, ma fu licenziato l'anno dopo per aver avuto dei contrasti con l'amante del principe, Caterina Beloch.

Giuseppe G. aveva intanto cominciato le sue prime prove poetiche e letterarie. Nel 1805 aveva scritto le ottave La Campagna, un componimento scolastico sulla bellezza della natura, e l'anno dopo una Dissertazione intorno la natura e utilità delle voci, poco più di un sunto del Saggio sull'origine delle conoscenze umane di Condillac, laddove si tratta del linguaggio quale elemento espressivo di mediazione tra la sensazione e il pensiero. Altri suoi scritti su alcuni fenomeni naturali, pur privi di qualunque importanza scientifica, danno testimonianza della sua curiosità e della serietà del suo spirito di osservazione. Nel 1807 scrisse le Lamentazioni, poemetto di nove canti in versi sciolti, con atmosfere notturne, e la Battaglia celtica, entrambe a imitazione del Cesarotti, allora in gran voga, mentre La Morte della Morte, del 1810, è un poemetto scherzoso in ottave, scritto a imitazione del Berni.

Nel 1812 Belli entrò, con il nome di Tirteo Lacedemonio nell' «Accade-mia degli Elleni», un istituto filo-francese fondato nel 1805 che nel 1813 subì una scissione che portò alla fondazione dell'«Accademia Tiberina», della quale fece parte anche il Belli. La nuova Accademia comprendeva gli oppositori dell'Impero di diverse tendenze - dai liberali ai clericali - e suoi membri furono nel tempo anche Mauro Cappellari, il futuro papa Gregorio XVI, e il principe Metternich.

Il 1812 è anche l'anno del poemetto di due canti in terzine, d'imitazione del Monti, Il convito di Baldassare ultimo re degli Assirj, de Il Diluvio universale e poi de L'Eccidio di Gerusalemme, de La sconfitta de' Madianiti e dei Salmi tradotti in versi sciolti, oltre a sonetti dedicati all'amico Francesco Spada. Dal 1815 si occupò anche di teatro, pubblicando le farse I finti commedianti e Il tutor pittore, e il dramma I fratelli alla prova, traduzione di un'opera di Benoît Pelletier-Volméranges. Nel 1816 pubblicò le terzine de La Pestilenza stata in Firenze l'anno di nostra salute MCCCXLVIII e nel 1817 A Filippo Pistrucci Romano. Il 1818 vide il suo ingresso nell'«Accademia dell'Arcadia» con il nome di Linarco Dirceo.

Il 12 settembre 1816 il Belli, che il mese precedente aveva ottenuto un impiego all'Ufficio del Registro, sposò Maria Conti (1780-1837), una vedova benestante, proprietaria di terre in Umbria, e i due coniugi si stabilirono in casa Conti a Palazzo Poli, presso la fontana di Trevi. Libero da assilli economici, il Belli poté iniziare una serie di viaggi che lo portarono a visitare Venezia, Napoli, Firenze e, fondamentale per il suo sviluppo artistico, Milano, che visitò nell'agosto del 1827 - dopo aver dato le dimissioni dal suo impiego statale - e vi si trattenne a lungo, ospite di un amico, l'architetto Giacomo Moraglia. A Milano, dove tornò in altre due occasioni, nel 1828 e nel 1829, conobbe le opere di Carlo Porta, e comprese la dignità artistica del dialetto e la forza satirica che il realismo popolare era capace di esprimere.

Dell'Accademia fu segretario e dal 1850 presidente. In questa veste fu responsabile della censura artistica e come tale si trovò a vietare la diffusione delle opere di William Shakespeare.

Morì nel 1863, a causa di un colpo apoplettico. Aveva disposto nel testamento che tutte le sue opere venissero bruciate, ma il figlio decise di non rispettare la volontà paterna, consentendo così che fossero conosciute. Il pronipote e artista, Guglielmo Janni, ne racconterà vita e opere in un opus monumentale di 10 volumi dattiloscritti.

I sonetti

« Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma.

In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un'impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. »

(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti)

« Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio. »

(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti)

« Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. »

(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti)

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